Il valore del
corpo nella società odierna (ovvero vendere il corpo è proprio cosi immorale ?)
lavoro subalterno (con riferimento ai regolamenti sindacali )
a) Il “fatto” del
lavoro è millenario, il termine “lavoro” è recente
Tentiamo di dare una definizione del lavoro: esso è
costituito da tutte le attività umane nec
essarie alla sopravvivenza, cioè alla
conservazione della vita umana in un ambiente che, senza queste attività,
sarebbe assai sfavorevole per l’uomo. Non c”è vita senza lavoro; questo è vero
per gli uomini come per gli animali: anche le specie più elementari sono
obbligate a “lavorare” per sopravvivere. Devono ricercare il loro nutrimento,
sceglierlo in mezzo a una moltitudine di materie e di esseri in maggioranza
inutili e ostili; per la maggior parte del tempo devono attaccare e distruggere
gli esseri (animali e vegetali) che “consumano”; devono inoltre difendersi, a
loro volta, da quegli esseri che, al contrario, li ricercano per “consumarli”.
L’uomo non si limita però a consumare cibo, ed è l’unico tra
gli animali a essere caratterizzato da una molteplicità di bisogni che esigono un’appropriazione
e una trasformazione della natura. Col passare del tempo, gli uomini sono
diventati sempre più ambiziosi riguardo a ciò che chiamano il “minimo vitale”.
In origine gli ominidi si contentavano, come gli altri animali, di una vita
vegetativa, in cui il lavoro serviva unicamente a procurarsi il cibo; ma più
aumentava l’efficienza del lavoro, più diventava loro possibile accedere a
condizioni di vita meno elementari. Gli uomini, dunque, sono oggi capaci di
lavorare non solo per assicurarsi la sopravvivenza, ma anche per acquisire beni
che, ai nostri antenati, sarebbero potuti sembrare inutili, se non addirittura
scandalosi, immorali o grotteschi (per es.: il comfort moderno, i film e i
libri erotici, lo smalto per le unghie dei cani di lusso).
Il termine “lavoro” deriva da parole che significano
difficoltà e persino pena o sofferenza; gradualmente, una parola che, nelle
lingue europee, designava ogni tipo di difficoltà è diventata il termine oggi
usuale per indicare lo sforzo compiuto per la produzione economica di beni e di
servizi. Che quest”accezione sia così recente in tutte le lingue è un fatto
assai istruttivo, derivante essenzialmente da due circostanze. In primo luogo i
nostri antenati non distinguevano ciò che noi oggi chiamiamo lavoro dal
non-lavoro. Non esisteva un impiego del tempo, non esistevano orari; gli uomini
non avevano un’idea precisa della durata; per esempio, non sapevano mai
esattamente la loro età; lo storico francese L. Febvre ha descritto in maniera
eccellente il “tempo dormiente” e indeterminato in cui vivevano i nostri
antenati. In tali condizioni era impossibile suddividere il tempo, come
facciamo noi, in tempi “specializzati” e misurati.
Cosa ancora più importante, ai nostri antenati non veniva in
mente l’idea di distinguere tra lo sforzo destinato a ciò che noi chiamiamo la
produzione e ogni altro sforzo, tra un certo tipo di fatica o di difficoltà e
tutti gli altri. Ripartire la vita tra lavoro, sonno, festa, tempo libero,
pasti, ecc., sarebbe sembrato loro non soltanto inutile e senza interesse, ma
ridicolo, arbitrario e nocivo. Il gioco, antenato del tempo libero, era per
esempio un modo di iniziarsi all’azione e di padroneggiarla. Il gioco è un’attività
molto importante, un fattore essenziale non solo della condizione umana, ma
anche della condizione animale. Il gioco serve a misurarsi gli uni con gli
altri, è un’integrazione della vita che, nell’antichità, era molto più
spontanea che ai nostri giorni; continuando anche in età avanzata, era
indissolubilmente intrecciato con gli altri atti della vita, e in particolare
con quegli sforzi che oggi chiamiamo lavoro.
b) Concezione
tradizionale e concezione contemporanea del lavoro
Esse sono radicalmente diverse. E ben vero, tuttavia, che si
tratta in entrambi i casi di attività necessarie alla vita (alla sopravvivenza
e all’esistenza). Lo scopo è dunque il medesimo. Ma i “mezzi” sono concepiti in
modo del tutto differente. Il lavoro tradizionale era una “preghiera”, un atto
rituale; il processo fisico non era altro che il riflesso di un atteggiamento
mentale che aveva come oggetto la modificazione di una realtà concepita come “soprannaturale”.
Il lavoro era molto più faticoso, ma era anche molto meglio accetto, essendo la
manifestazione formale di un’adesione spirituale all’ordine del mondo. Il
lavoro contemporaneo è invece, com’è noto, una tecnica, un atto puramente
naturale, senz’altro effetto che quello di modificare la realtà fisica
naturale: è privo di ripercussioni sul “soprannaturale”.
Per i nostri antenati, la realtà naturale non era altro che l’apparenza
di una realtà soprannaturale, che dava alla prima ordine ed esistenza. Il corpo
è “animato” dall’anima; un corpo senz”anima è un cadavere “inanimato”. Il mondo
della vita sembrava loro distinto dal mondo della materia in virtù dell’animazione
impressa dallo spirito - soprannaturale - il quale è la verità e la potenza. La
vita è caratterizzata dal movimento; questa vita, questo movimento non sono
dovuti alla materia, al corpo fisico, ma alla presenza di un’anima nel corpo
fisico. La morte è la perdita dell’anima. Questa nozione veniva applicata a
ogni essere vivente. Tutto ciò che vive, vive grazie all’anima, cioè grazie a
realtà soprannaturali, a “spiriti”.
Questa rappresentazione del mondo, che distingue lo spirito
dalla materia, può essere paragonata al nostro modo attuale di concepire l’energia.
Oggi diremmo che in ogni corpo vivente dev’esserci dell’energia; l’energia non
è però “spirito”: è una forma, in verità molto misteriosa, della materia; è il
risultato di una disintegrazione della materia.
Perché un granello di frumento germogli, sono necessarie
forze che lo valorizzino. I nostri antenati spiegavano questo spettacolo
abituale che avevano sotto gli occhi attraverso il soprannaturale. Soltanto il
soprannaturale – l’anima, lo spirito - può modificare il reale, far germogliare
il frumento, far nascere un bambino. In questa concezione del mondo, lavorare
significa per l’uomo tentare di dominare le forze soprannaturali, o per lo meno
tentare di ottenere un accordo di quelle forze spirituali che trasformano la
natura e che, partendo da un granello di frumento, danno altri venti o trenta
granelli di frumento. Di qui la concezione “magica” del lavoro propria dei
nostri antenati: si trattava di conciliarsi le potenze soprannaturali per
ottenerne quelle azioni che esse sole potevano compiere. È necessario
assicurarsi la benevolenza degli spiriti soprannaturali per poter modificare il
reale inanimato in modo vantaggioso per l’uomo.
Il lavoro tradizionale era quindi una preghiera rivolta da
una persona a una persona, un atto religioso; il lavoro più duro, più
ripugnante comportava “entusiasmo”. Oggi, l’entusiasmo per il lavoro è
diventato inconcepibile. In altri tempi, anche uno schiavo costretto a fare
lavori penosi, di cui non avrebbe goduto i frutti, aveva la soddisfazione di
compiere un atto religioso. Lavorando, pensava di partecipare all’ordine del
mondo e, a un tempo, con i suoi meriti, con le sue prove, di elevarsi nella
gerarchia in esso implicita.
La nozione di giustizia era radicalmente differente da
quella odierna. Essere giusto equivaleva a dare a ciascuno la posizione, l’autorità
e la funzione che gli spettavano nell’ordine del mondo: il re e l’imperatore
erano riconosciuti come tali, il capofamiglia come pater familias, il cittadino
come cittadino, lo schiavo come schiavo, ciascuno faceva ciò che la propria
posizione gli imponeva di fare.
Oggi noi siamo privati di quel ruolo sacro che i nostri
antenati svolgevano in una natura “stregata” dal soprannaturale. Il lavoratore
è ridotto a svolgere un ruolo meccanico in un mondo laicizzato, che deve
bastare a se stesso. Al di sopra della realtà dura e piatta non c”è più un
cielo.
Questa introduzione, che forse può sembrare a certi lettori
estranea all’argomento, permette invece di comprendere la gravità dei problemi
del lavoro nel mondo attuale. Il considerarli dal solo punto di vista della
tecnica e dell’efficienza equivale a votarsi a errori gravidi di conseguenze. L’uomo
vive “mentre” lavora, ed è vano sperare in un’umanità che sopravviva come tale,
se la ricerca degli obiettivi economici a breve o medio termine mutila l’uomo,
nel lavoro, della sua dignità di uomo e della sua fede nella finalità del
mondo. Non voglio certo dire che l’umanità
debba ritornare alle sue ingenue concezioni magiche del lavoro; ma neppure può
accettare in modo duraturo una concezione puramente tecnica, analitica ed
economica della propria esistenza e, di conseguenza, del proprio lavoro.
L’umanità ha appena vissuto e sta vivendo, unitamente a un
progresso scientifico ed economico che supera in modo stupefacente le sue
millenarie speranze, un trauma culturale e spirituale. Gli ingegneri, gli
uomini d”azione, i Ford, i Citroën, che hanno dato inizio a questo sviluppo
prodigioso e oggi lo accelerano, debbono sapere che la massa del popolo, pur
beneficiando del miglioramento del livello di vita e dell’allungamento della
durata della vita che le tecniche industriali e mediche permettono, si trova
oggi sempre più spaesata e disorientata nell’ambiente razionale, meccanizzato e
organizzato che lo “sviluppo sostituisce rapidamente all’ambiente naturale.
Rappresentando con Atala gli elementi sentimentali, affettivi, poetici e
sensibili che costituiscono il cuore dell’uomo (Atala, un’indiana Natchez, è un
personaggio ben noto di un celeberrimo racconto di Chateaubriand), si può dire,
per esemplificare la crisi del nostro tempo, che “Atala lavora alla Citroën”.
Per riconciliare Atala con il suo lavoro, con il genere di
vita, le gerarchie, le organizzazioni, gli organigrammi che la Citroën le
impone in nome dell’efficienza e del livello di vita, non bastano tutte le
scienze fisiche e umane: non solo le tecnologie industriali, ma la psicologia,
la biologia, la sociologia, la storia, l’etnologia ecc. È vano e pericoloso
pensare che si possa separare il lavoro dalle altre attività dell’uomo e dare
all’umanità un equilibrio vitale senza darglielo anzitutto nel lavoro. I
problemi del lavoro sono problemi umani.
Questi problemi sono numerosi e non possiamo pensare di
affrontarli tutti qui. I trattati di diritto, di tecnologia, di organizzazione
e di sociologia del lavoro abbondano in tutte le lingue. La bibliografia sull’argomento
è vastissima.
Enumeriamone rapidamente le principali suddivisioni
classificandole, abbastanza arbitrariamente, in quattro gruppi: a) implicazioni
degli aspetti fisici e biologici, specialmente in materia di sicurezza del
lavoro, d”igiene, di prevenzione delle malattie e di incidenti sul lavoro; b)
diritto del lavoro, diritto delle assicurazioni sociali e poi della previdenza
sociale, che sono diventati uno dei settori principali dell’insegnamento e
della prassi del diritto; esso comprende in particolare lo studio del contratto
di lavoro, dei contratti collettivi, delle assicurazioni contro gli incidenti
di lavoro e la disoccupazione; comprende anche gli importanti capitoli relativi
al diritto sindacale, agli scioperi, ecc.; c) economia del lavoro, che implica
la nozione di impresa e di produzione nazionale; comprende i problemi di
ripartizione dei frutti della produzione, dunque i salari e i profitti, l’ampiezza
del ventaglio dei redditi - dal manovale al direttore generale -, le relazioni
tra salari, potere di acquisto, livello di vita e produttività; d) sociologia
del lavoro, che comprende i grandi capitoli della psicologia dei gruppi e delle
organizzazioni, le “relazioni umane nel lavoro”, i conflitti collettivi, i
problemi di responsabilità, di “partecipazione” alle decisioni, di gerarchia,
di circolazione dell’informazione, ecc.
In questo articolo il lavoro sarà esaminato dal punto di
vista economico e sociale, dunque dal punto di vista della vita quotidiana dell’uomo
medio, degli sviluppi recenti e delle prospettive per il prossimo avvenire.
La questione non può esser risolta con principi
semplicistici, dato che molti lavoratori preferiscono una mansione facile, ripetuta
e abituale, a lavori più complessi. Nell’opera Le travail en miettes, G.
Friedmann registra le reazioni di numerosi operai qualificati; certi operai di
una fabbrica di materiali radioelettrici preferiscono i lavori semplici, che
comportano un piccolo numero di operazioni elementari; se aumenta la difficoltà
dei lavori, diminuisce il loro rendimento. In altre imprese, al contrario,
altri operai qualificati cercano un lavoro che richieda maggiore iniziativa.
L’uomo preferisce limitare il
rapporto di eguaglianza
tra imprenditore e operaio per poter rivendicare i danni a favore della parte per definizione più
debole l’operaio .
vale a dire che la prostituta
deve sottoporsi a rapporti con diversi individui, senza scelta, sine dilectu,
cioè generalmente senza partecipazione al piacere. Come nell’operaio per il suo
lavoro può non essere gratificato
.Oppure il lavoro di fotomodella in cui il corpo viene venduto come prodotto di pubblicità .in questo caso nessuno può pensare che sia immorale o questa ragazza è sfruttata.
Lo stesso problema, in altri ambienti culturali, viene formulato accentuando gli aspetti di tutela
della persona piuttosto che quelli inerenti al rapporto di mercato: posto
che il lavoro non è assimilabile a un bene dato in locazione, e poiché la
prestazione coinvolge la personalità del lavoratore, ne viene dedotta la necessità di limitare, nella determinazione dei
termini di scambio, una libertà che
finisce per volgersi a danno di una delle parti.
Sia che l’argomento venga fondato su basi socioeconomiche,
sia che riveli le tracce di un’ispirazione personalistica, l’esito di diritto
positivo è lo stesso, nel senso che il
rilievo del momento volontario viene progressivamente ridotto, fin quasi ad
annullarsi. I contenuti del contratto sono determinati da fonti sovrastanti
alle parti - le leggi o gli accordi collettivi - mentre anche il momento della
costituzione del rapporto viene sottoposto in taluni ordinamenti a vincoli
intensi (si pensi alle assunzioni
obbligatorie di soggetti a ridotta capacità lavorativa, o al collocamento
obbligatorio, come vige in Italia, per vero con scarsa effettività).
La nozione di
contraente più debole viene in genere data come coincidente con quella di
dipendenza o subordinazione. Anche sotto questo aspetto è dato individuare la
contraddizione, già posta in luce, tra la definizione del contratto e la
funzione economico-sociale del diritto del lavoro. Infatti la condizione di
contraente più debole copre un’area in taluni casi più ampia del rapporto di
dipendenza (questo dicasi per esempio con riguardo a rapporti associativi in
agricoltura o a certe forme di agenzia o di lavoro autonomo continuativo con
gli stessi committenti); in taluni casi più circoscritta, dato che non tutti i
lavoratori subordinati sono economicamente “deboli” (questo dicasi per tutte le
alte posizioni direttive o tecniche). L’aver privilegiato il criterio formale
(la subordinazione nell’esecuzione del rapporto) rispetto a quello reale (l’esistenza
effettiva di uno squilibrio di forza contrattuale) ha probabilmente contribuito
a distorsioni del sistema, poiché ha iperprotetto rapporti che già si
svolgevano in condizioni di relativo equilibrio, e ha lasciato invece fuori
rapporti sociali di intenso sfruttamento.
Occorre però un’estrema cautela nell’applicazione della
categoria di prostituzione. a relazioni e scambi che coinvolgono la sfera
economica e quella sessuale in differenti contesti etnografici. In passato gli
osservatori occidentali, in base alla propria concezione della sessualità,
hanno infatti assimilato alla pratica della prostituzione. istituzioni sociali
la cui organizzazione e le cui finalità si discostavano totalmente dal fenomeno
così come è inteso in Occidente.
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