domenica 2 marzo 2014

Il valore del corpo nella società odierna (ovvero vendere il corpo è proprio cosi immorale ?)

Il valore del  corpo  nella  società odierna  (ovvero vendere il  corpo è proprio cosi  immorale ?)


lavoro  subalterno (con riferimento ai regolamenti sindacali  )

a) Il “fatto” del lavoro è millenario, il termine “lavoro” è recente
Tentiamo di dare una definizione del lavoro: esso è costituito da tutte le attività umane nec
essarie alla sopravvivenza, cioè alla conservazione della vita umana in un ambiente che, senza queste attività, sarebbe assai sfavorevole per l’uomo. Non c”è vita senza lavoro; questo è vero per gli uomini come per gli animali: anche le specie più elementari sono obbligate a “lavorare” per sopravvivere. Devono ricercare il loro nutrimento, sceglierlo in mezzo a una moltitudine di materie e di esseri in maggioranza inutili e ostili; per la maggior parte del tempo devono attaccare e distruggere gli esseri (animali e vegetali) che “consumano”; devono inoltre difendersi, a loro volta, da quegli esseri che, al contrario, li ricercano per “consumarli”.
L’uomo non si limita però a consumare cibo, ed è l’unico tra gli animali a essere caratterizzato da una molteplicità di bisogni che esigono un’appropriazione e una trasformazione della natura. Col passare del tempo, gli uomini sono diventati sempre più ambiziosi riguardo a ciò che chiamano il “minimo vitale”. In origine gli ominidi si contentavano, come gli altri animali, di una vita vegetativa, in cui il lavoro serviva unicamente a procurarsi il cibo; ma più aumentava l’efficienza del lavoro, più diventava loro possibile accedere a condizioni di vita meno elementari. Gli uomini, dunque, sono oggi capaci di lavorare non solo per assicurarsi la sopravvivenza, ma anche per acquisire beni che, ai nostri antenati, sarebbero potuti sembrare inutili, se non addirittura scandalosi, immorali o grotteschi (per es.: il comfort moderno, i film e i libri erotici, lo smalto per le unghie dei cani di lusso).
Il termine “lavoro” deriva da parole che significano difficoltà e persino pena o sofferenza; gradualmente, una parola che, nelle lingue europee, designava ogni tipo di difficoltà è diventata il termine oggi usuale per indicare lo sforzo compiuto per la produzione economica di beni e di servizi. Che quest”accezione sia così recente in tutte le lingue è un fatto assai istruttivo, derivante essenzialmente da due circostanze. In primo luogo i nostri antenati non distinguevano ciò che noi oggi chiamiamo lavoro dal non-lavoro. Non esisteva un impiego del tempo, non esistevano orari; gli uomini non avevano un’idea precisa della durata; per esempio, non sapevano mai esattamente la loro età; lo storico francese L. Febvre ha descritto in maniera eccellente il “tempo dormiente” e indeterminato in cui vivevano i nostri antenati. In tali condizioni era impossibile suddividere il tempo, come facciamo noi, in tempi “specializzati” e misurati.
Cosa ancora più importante, ai nostri antenati non veniva in mente l’idea di distinguere tra lo sforzo destinato a ciò che noi chiamiamo la produzione e ogni altro sforzo, tra un certo tipo di fatica o di difficoltà e tutti gli altri. Ripartire la vita tra lavoro, sonno, festa, tempo libero, pasti, ecc., sarebbe sembrato loro non soltanto inutile e senza interesse, ma ridicolo, arbitrario e nocivo. Il gioco, antenato del tempo libero, era per esempio un modo di iniziarsi all’azione e di padroneggiarla. Il gioco è un’attività molto importante, un fattore essenziale non solo della condizione umana, ma anche della condizione animale. Il gioco serve a misurarsi gli uni con gli altri, è un’integrazione della vita che, nell’antichità, era molto più spontanea che ai nostri giorni; continuando anche in età avanzata, era indissolubilmente intrecciato con gli altri atti della vita, e in particolare con quegli sforzi che oggi chiamiamo lavoro.

b) Concezione tradizionale e concezione contemporanea del lavoro
Esse sono radicalmente diverse. E ben vero, tuttavia, che si tratta in entrambi i casi di attività necessarie alla vita (alla sopravvivenza e all’esistenza). Lo scopo è dunque il medesimo. Ma i “mezzi” sono concepiti in modo del tutto differente. Il lavoro tradizionale era una “preghiera”, un atto rituale; il processo fisico non era altro che il riflesso di un atteggiamento mentale che aveva come oggetto la modificazione di una realtà concepita come “soprannaturale”. Il lavoro era molto più faticoso, ma era anche molto meglio accetto, essendo la manifestazione formale di un’adesione spirituale all’ordine del mondo. Il lavoro contemporaneo è invece, com’è noto, una tecnica, un atto puramente naturale, senz’altro effetto che quello di modificare la realtà fisica naturale: è privo di ripercussioni sul “soprannaturale”.
Per i nostri antenati, la realtà naturale non era altro che l’apparenza di una realtà soprannaturale, che dava alla prima ordine ed esistenza. Il corpo è “animato” dall’anima; un corpo senz”anima è un cadavere “inanimato”. Il mondo della vita sembrava loro distinto dal mondo della materia in virtù dell’animazione impressa dallo spirito - soprannaturale - il quale è la verità e la potenza. La vita è caratterizzata dal movimento; questa vita, questo movimento non sono dovuti alla materia, al corpo fisico, ma alla presenza di un’anima nel corpo fisico. La morte è la perdita dell’anima. Questa nozione veniva applicata a ogni essere vivente. Tutto ciò che vive, vive grazie all’anima, cioè grazie a realtà soprannaturali, a “spiriti”.
Questa rappresentazione del mondo, che distingue lo spirito dalla materia, può essere paragonata al nostro modo attuale di concepire l’energia. Oggi diremmo che in ogni corpo vivente dev’esserci dell’energia; l’energia non è però “spirito”: è una forma, in verità molto misteriosa, della materia; è il risultato di una disintegrazione della materia.
Perché un granello di frumento germogli, sono necessarie forze che lo valorizzino. I nostri antenati spiegavano questo spettacolo abituale che avevano sotto gli occhi attraverso il soprannaturale. Soltanto il soprannaturale – l’anima, lo spirito - può modificare il reale, far germogliare il frumento, far nascere un bambino. In questa concezione del mondo, lavorare significa per l’uomo tentare di dominare le forze soprannaturali, o per lo meno tentare di ottenere un accordo di quelle forze spirituali che trasformano la natura e che, partendo da un granello di frumento, danno altri venti o trenta granelli di frumento. Di qui la concezione “magica” del lavoro propria dei nostri antenati: si trattava di conciliarsi le potenze soprannaturali per ottenerne quelle azioni che esse sole potevano compiere. È necessario assicurarsi la benevolenza degli spiriti soprannaturali per poter modificare il reale inanimato in modo vantaggioso per l’uomo.
Il lavoro tradizionale era quindi una preghiera rivolta da una persona a una persona, un atto religioso; il lavoro più duro, più ripugnante comportava “entusiasmo”. Oggi, l’entusiasmo per il lavoro è diventato inconcepibile. In altri tempi, anche uno schiavo costretto a fare lavori penosi, di cui non avrebbe goduto i frutti, aveva la soddisfazione di compiere un atto religioso. Lavorando, pensava di partecipare all’ordine del mondo e, a un tempo, con i suoi meriti, con le sue prove, di elevarsi nella gerarchia in esso implicita.
La nozione di giustizia era radicalmente differente da quella odierna. Essere giusto equivaleva a dare a ciascuno la posizione, l’autorità e la funzione che gli spettavano nell’ordine del mondo: il re e l’imperatore erano riconosciuti come tali, il capofamiglia come pater familias, il cittadino come cittadino, lo schiavo come schiavo, ciascuno faceva ciò che la propria posizione gli imponeva di fare.
Oggi noi siamo privati di quel ruolo sacro che i nostri antenati svolgevano in una natura “stregata” dal soprannaturale. Il lavoratore è ridotto a svolgere un ruolo meccanico in un mondo laicizzato, che deve bastare a se stesso. Al di sopra della realtà dura e piatta non c”è più un cielo.
Questa introduzione, che forse può sembrare a certi lettori estranea all’argomento, permette invece di comprendere la gravità dei problemi del lavoro nel mondo attuale. Il considerarli dal solo punto di vista della tecnica e dell’efficienza equivale a votarsi a errori gravidi di conseguenze. L’uomo vive “mentre” lavora, ed è vano sperare in un’umanità che sopravviva come tale, se la ricerca degli obiettivi economici a breve o medio termine mutila l’uomo, nel lavoro, della sua dignità di uomo e della sua fede nella finalità del mondo. Non voglio certo dire che l’umanità debba ritornare alle sue ingenue concezioni magiche del lavoro; ma neppure può accettare in modo duraturo una concezione puramente tecnica, analitica ed economica della propria esistenza e, di conseguenza, del proprio lavoro.
L’umanità ha appena vissuto e sta vivendo, unitamente a un progresso scientifico ed economico che supera in modo stupefacente le sue millenarie speranze, un trauma culturale e spirituale. Gli ingegneri, gli uomini d”azione, i Ford, i Citroën, che hanno dato inizio a questo sviluppo prodigioso e oggi lo accelerano, debbono sapere che la massa del popolo, pur beneficiando del miglioramento del livello di vita e dell’allungamento della durata della vita che le tecniche industriali e mediche permettono, si trova oggi sempre più spaesata e disorientata nell’ambiente razionale, meccanizzato e organizzato che lo “sviluppo sostituisce rapidamente all’ambiente naturale. Rappresentando con Atala gli elementi sentimentali, affettivi, poetici e sensibili che costituiscono il cuore dell’uomo (Atala, un’indiana Natchez, è un personaggio ben noto di un celeberrimo racconto di Chateaubriand), si può dire, per esemplificare la crisi del nostro tempo, che “Atala lavora alla Citroën”.
Per riconciliare Atala con il suo lavoro, con il genere di vita, le gerarchie, le organizzazioni, gli organigrammi che la Citroën le impone in nome dell’efficienza e del livello di vita, non bastano tutte le scienze fisiche e umane: non solo le tecnologie industriali, ma la psicologia, la biologia, la sociologia, la storia, l’etnologia ecc. È vano e pericoloso pensare che si possa separare il lavoro dalle altre attività dell’uomo e dare all’umanità un equilibrio vitale senza darglielo anzitutto nel lavoro. I problemi del lavoro sono problemi umani.
Questi problemi sono numerosi e non possiamo pensare di affrontarli tutti qui. I trattati di diritto, di tecnologia, di organizzazione e di sociologia del lavoro abbondano in tutte le lingue. La bibliografia sull’argomento è vastissima.
Enumeriamone rapidamente le principali suddivisioni classificandole, abbastanza arbitrariamente, in quattro gruppi: a) implicazioni degli aspetti fisici e biologici, specialmente in materia di sicurezza del lavoro, d”igiene, di prevenzione delle malattie e di incidenti sul lavoro; b) diritto del lavoro, diritto delle assicurazioni sociali e poi della previdenza sociale, che sono diventati uno dei settori principali dell’insegnamento e della prassi del diritto; esso comprende in particolare lo studio del contratto di lavoro, dei contratti collettivi, delle assicurazioni contro gli incidenti di lavoro e la disoccupazione; comprende anche gli importanti capitoli relativi al diritto sindacale, agli scioperi, ecc.; c) economia del lavoro, che implica la nozione di impresa e di produzione nazionale; comprende i problemi di ripartizione dei frutti della produzione, dunque i salari e i profitti, l’ampiezza del ventaglio dei redditi - dal manovale al direttore generale -, le relazioni tra salari, potere di acquisto, livello di vita e produttività; d) sociologia del lavoro, che comprende i grandi capitoli della psicologia dei gruppi e delle organizzazioni, le “relazioni umane nel lavoro”, i conflitti collettivi, i problemi di responsabilità, di “partecipazione” alle decisioni, di gerarchia, di circolazione dell’informazione, ecc.
In questo articolo il lavoro sarà esaminato dal punto di vista economico e sociale, dunque dal punto di vista della vita quotidiana dell’uomo medio, degli sviluppi recenti e delle prospettive per il prossimo avvenire.

La questione non può esser risolta con principi semplicistici, dato che molti lavoratori preferiscono una mansione facile, ripetuta e abituale, a lavori più complessi. Nell’opera Le travail en miettes, G. Friedmann registra le reazioni di numerosi operai qualificati; certi operai di una fabbrica di materiali radioelettrici preferiscono i lavori semplici, che comportano un piccolo numero di operazioni elementari; se aumenta la difficoltà dei lavori, diminuisce il loro rendimento. In altre imprese, al contrario, altri operai qualificati cercano un lavoro che richieda maggiore iniziativa.

L’uomo preferisce limitare  il  rapporto  di  eguaglianza  tra imprenditore e  operaio  per poter rivendicare i danni a favore della  parte per definizione  più  debole  l’operaio .

vale a dire che la prostituta deve sottoporsi a rapporti con diversi individui, senza scelta, sine dilectu, cioè generalmente senza partecipazione al piacere. Come  nell’operaio per il  suo  lavoro può non  essere gratificato .Oppure il  lavoro  di  fotomodella in  cui  il  corpo  viene  venduto come  prodotto di  pubblicità .in  questo  caso  nessuno può pensare che  sia  immorale o questa ragazza è  sfruttata.

Lo stesso problema, in altri ambienti culturali, viene formulato accentuando gli aspetti di tutela della persona piuttosto che quelli inerenti al rapporto di mercato: posto che il lavoro non è assimilabile a un bene dato in locazione, e poiché la prestazione coinvolge la personalità del lavoratore, ne viene dedotta la necessità di limitare, nella determinazione dei termini di scambio, una libertà che finisce per volgersi a danno di una delle parti.


Sia che l’argomento venga fondato su basi socioeconomiche, sia che riveli le tracce di un’ispirazione personalistica, l’esito di diritto positivo è lo stesso, nel senso che il rilievo del momento volontario viene progressivamente ridotto, fin quasi ad annullarsi. I contenuti del contratto sono determinati da fonti sovrastanti alle parti - le leggi o gli accordi collettivi - mentre anche il momento della costituzione del rapporto viene sottoposto in taluni ordinamenti a vincoli intensi (si pensi alle assunzioni obbligatorie di soggetti a ridotta capacità lavorativa, o al collocamento obbligatorio, come vige in Italia, per vero con scarsa effettività).

La nozione di contraente più debole viene in genere data come coincidente con quella di dipendenza o subordinazione. Anche sotto questo aspetto è dato individuare la contraddizione, già posta in luce, tra la definizione del contratto e la funzione economico-sociale del diritto del lavoro. Infatti la condizione di contraente più debole copre un’area in taluni casi più ampia del rapporto di dipendenza (questo dicasi per esempio con riguardo a rapporti associativi in agricoltura o a certe forme di agenzia o di lavoro autonomo continuativo con gli stessi committenti); in taluni casi più circoscritta, dato che non tutti i lavoratori subordinati sono economicamente “deboli” (questo dicasi per tutte le alte posizioni direttive o tecniche). L’aver privilegiato il criterio formale (la subordinazione nell’esecuzione del rapporto) rispetto a quello reale (l’esistenza effettiva di uno squilibrio di forza contrattuale) ha probabilmente contribuito a distorsioni del sistema, poiché ha iperprotetto rapporti che già si svolgevano in condizioni di relativo equilibrio, e ha lasciato invece fuori rapporti sociali di intenso sfruttamento.

Occorre però un’estrema cautela nell’applicazione della categoria di prostituzione. a relazioni e scambi che coinvolgono la sfera economica e quella sessuale in differenti contesti etnografici. In passato gli osservatori occidentali, in base alla propria concezione della sessualità, hanno infatti assimilato alla pratica della prostituzione. istituzioni sociali la cui organizzazione e le cui finalità si discostavano totalmente dal fenomeno così come è inteso in Occidente.



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